
Dopo il testo in limba, per chi non avesse dimestichezza con il sardo nella variante abbasantese, può leggere la traduzione in italiano.
" E non t'ismentighes de che leare su semene, comente as fatto chida passada, ca invezes de cuitare, istentas de prusu. Sarbadore oe non podet mancare de iscola, ca ocannu est in quinta e de dies nde at perdiu medas; o ite cheres chi fizu tu abbarret ignorante comente a tie". A custa arremproadura de Maria, Zuanni si fuit etau a surdu, finzas puite non teniat gana de repricare, ca fuint meda sos penzamentos chi jughiat in conca.
Arribau a su cuile chi fuit ancora iscurigau, aiat murto impresse sas arbeghes e che aiat leau su latte a su cuile de Tanielle, su frade, inue Zuseppe Loi su tzeraccu, fuit fininde de murghere. " Assora, Zuseppe, apustis chi che as leau su latte a casufìziu, torra impresse a suba, ca mi zas una manu pò fìnire de semenare su cunzau de Collari".
Sos frores in s'ena
isparghen su manzanu
da chi'etta lentore
Sos frores in s’ena
su non l'aere in manu
sende chi t'apo amore
custu si chi m'es pena
Sos puzones a nues
falan a s'umbrare
in zardinu nou
Sos puzones a nues
non lu potto impegnare
cun atere s’amore
bella si non ses tue
Custos fuint sos primos frores chi aiat cantau su lunis manzanu, Anzelina Mancone, e pois dos arretrogaiat medas bortas. Maria e Sufìa fuint andadas chimbe dies a su trigu de Collari e ateras tres dies a cussu de S'Enturzone, e agataiant onzi orta inie, Zuanni e Tanielle.
La storia è ambientata negli anni cinquanta, ad Abbasanta, quando ancora tutto procedeva come nei secoli o forse millenni fa. Poi con il progresso sono arrivate anche le macchine agricole e tutto è finito. Sotto certi aspetti sono momenti che ricordo anch’io con nostalgia, ero bambino, e sebbene non fossi figlio di contadini, tutt’intorno il mondo circostante era prevalentemente agro-pastorale, i miei compagni di giochi, e la maggior parte dei miei parenti e amici lo era.
SA PINNA ‘E FERRU DE FATTU ‘ENE
( LO ZOCCOLO DI FERRO DI FATTU ‘ENE)
(di Raffaele Arca)
“Certamente”, pensava Giovanni Angioni, “con tutta l’acqua che è caduta quest’autunno, i buoi tirano l’aratro ch’è una bellezza”
Ma questo pensiero era appena passato, che le gambe di entrambi i buoi sprofondano nella terra fino alle ginocchia, come passassero in un mucchio di sabbia.
Giovanni inizialmente rimase meravigliato, ma subito spronando Fattu ‘ene e Bellu ‘e vista, con il pungolo, si mise a gridare:”Fattu ‘ene, Bellu ‘e vista, uscite da li, Fattu ‘ene, Bellu ‘e vista”. Ma Giovanni non stava urlando in campagna, ma in camera da letto di casa sua.
Fattu ‘ene e Bellu ‘e vista gli aveva visti in sogno e molto si dimenò, che svegliò anche Maria, sua moglie. “Cos’ hai da urlare?” gli dice Maria, “cos’è tutta la preoccupazione che hai?”, insiste ancora la moglie.
“La preoccupazione che ho è che mi resta ancora tanto spazio da seminare, e che Daniele non possa venire ad aiutarmi - lo sai - che quella mucca non aveva altro da fare che incornarlo. Bene o male con Giuseppe dovrei finire prima che arrivi quella valanga d’acqua che minaccia da un paio di giorni”.
Dopo essersi alzati, e dopo aver bevuto il latte, Giovanni caricò il cavallo di tutto il necessario. “E non dimenticarti di prendere le sementi, come hai fatto la settimana scorsa, che invece di sbrigarti, perdi più tempo. Salvatore oggi non può mancare da scuola, perché quest’anno è in quinta e di giorni ne ha perso tanti; o vuoi che tuo figlio rimanga ignorante come te?”
A questi rimproveri di Maria, Giovanni fece finta di non sentire, anche perché non aveva voglia di replicare, erano tante le preoccupazioni che aveva in testa. Arrivò all’ovile che era ancora buio, aveva munto in fretta le pecore e portato il latte all’ovile di Daniele, suo fratello, dove Giuseppe Loi il servo, stava finendo di mungere.
“Allora, Giuseppe, dopo che hai portato il latte in caseificio, ritorna in fretta su, che mi dai una mano per finire di seminare il chiuso di Collari”.
Aggiogati i buoi con correggia nuove, attaccato l’aratro, Giovanni con Fattu ‘ene e Bellu ‘e vista sono partiti vogliosi. Di certo, arare con l’aratro nuovo di ferro, era tutto un’altra cosa che arare con quello antico di legno, si faceva molto di più, e la terra veniva lavorata meglio.
“Accipicchia”, pensava Giovanni “il numero cinque è un bell’aratro e fa un bel lavoro, ma ti spezza le braccia. Non come il numero sette con cui ho fatto in Aprile la prima aratura, e in Luglio la seconda”.
Per finire di seminare il chiuso, restavano tre ’ tulas’ lunghe e bisognava arare anche la mattina dell’indomani, se tutto procedeva bene.
Giuseppe era ritornato dal paese con l’asina grande, venne anche Daniele con la sua cavalla, perché stava meglio.
Assieme zappettavano sull’arato, ma Daniele zappettava piano, senza sforzare, perché aveva tre costole rotte, da tre giorni.
Stava procedendo tutto bene, quando all’improvviso, Fattu ‘ene non riusciva ad alzare da terra, il piede destro posteriore, come se fosse inchiodato.
Giovanni lo pungolava e gli urlava, ma il bue non si muoveva, perché aveva infilato il piede in mezzo a due rocce aguzze. A forza di insistere, Fattu ‘ene riuscì a sfilare il piede, ma era sanguinante perché si era strappato lo zoccolo di ferro destro, e quello di sinistra traballava.“Adesso ci voleva anche questo” disse Giovanni, “dove tornare in paese per ferrare nuovamente il bue”. Dopo essersi messo d’accordo con Daniele e con Giuseppe, per il da farsi, Giovanni partì al paese con Fattu ‘ene, e arrivarono a casa che era buio già da molto.
L’indomani mattina, dopo aver ferrato il bue, Giovanni era tornò in campagna.
Fattu ‘ene non camminava molto svelto, perché gli doleva l’unghia del piede appena ferrato. Daniele con Giuseppe avevano di già seminato l’ultima’ tula’, e Bellu ‘e vista era pronto per essere aggiogato.
Il cielo si riempiva di nuvole nere, e verso le tre del pomeriggio sembrava fosse già buio. I tuoni ed i lampi si susseguivano l’un l’altro ed i buoi, intimoriti, divennero nervosi.
“Bisogna sbrigarsi ragazzi, altrimenti stasera ci bagniamo”, disse Daniele. Finito di arare il chiuso, Giovanni attaccò i buoi al carro e lo portò all’ovile. Dopo averli slegati e rifocillati nel chiuso affianco al capanno, mentre Daniele e Giuseppe rinchiudevano le pecore. Entrarono nel capanno appena in tempo, prima che arrivasse la valanga d’acqua, con lampi e tuoni, sembrava volesse cadere il cielo. Anche i cani temevano e si accucciarono all’imboccatura del capanno.
“L’acqua fa bene al seminato, purché non piova per molto tempo, altrimenti trascina via le sementi”, disse Giovanni. “ Beh, quest’anno ha fatto un bell’autunno e speriamo che non faccia un brutto inverno”, continuò Daniele.
Piovve bene a Dicembre, a Gennaio e a Febbraio. Dopo aver zappato l’orzo e l’avena; Giovanni, Daniele e Giuseppe zapparono il grano. In Febbraio ci furono abbondanti piogge, che fecero bene al seminato, ma furono d’intralcio alla zappatura, che finì a metà Marzo. I cereali crebbero bene veramente e arrivò il tempo di mondare. Le erbe cattive furono molte ed alte. Maria Laconi, la moglie di Giovanni, con Sofia Sulas, la moglie di Daniele, si misero d’accordo per andare insieme al monte, a mondare, il lunedì seguente.
Stimarono con i mariti, di finire prima di Pasqua, che quell’anno cadeva in ritardo. Il lunedì – venticinque di Marzo – Maria, dopo aver sbrigato le faccende domestiche, passò in casa di Sofia. “Ho lasciato il pranzo a Salvatore pronto da mangiare, e poi è un ragazzo che s’aggiusta e tu Sofia, con tre figlie già grandi, non hai questa preoccupazione”, disse Maria.
“ E’ vero che ho tre figlie, ma guarda, già lo sai, i litigi che fanno prima di mettersi a fare i lavori, mi fanno perdere la pazienza più d’una volta”, replicò Sofia. Si misero in cammino e all’uscita del paese, nella Cantoniera, si imbatterono con Maria Miscali, Fellica Cossu e Angelina Manconi, che andavano anche loro a mondare. Più avanti si vedeva un bel gruppo di donne, giovani e anziane. Ogni mattina, nello stradone da Abbasanta alla Tanca Regia, era una processione di donne che andavano al Monte a mondare. Si davano appuntamento nelle Cantoniera, per fare strada insieme. Cammin facendo si raccontavano le novità più piccanti che erano successe in paese, e chi aveva voglia e voce cantava”frores”.
Angelina Manconi ne cantava tanti, perché appassionata e poi aveva una bella voce, e faceva piacere ascoltarla.
I fiori nella fontana
profumano il mattino
quando si posa la rugiada
I fiori nella fontana
il non averti in mano
sapendo che ti amo
questo si che m’è pena
Gli uccelli a stormi
si posano all’ombra
nel nuovo giardino
Gli uccelli a stormi
non posso impegnarlo
con altri l’amore
bella se non sei tu
Questi furono i primi ‘frores’ che cantò il lunedì mattina, Angelina Manconi, e poi gli alternava tante volte.
Maria e Sofia andarono cinque giorni al seminato di Collari e altri tre giorni a quello di S’Enturzone, e trovavano tutti i giorni li, Giovanni e Daniele.
Giuseppe veniva più tardi perché andava in paese, a portare il latte al caseificio.
“Papaveri c’è ne sono tanti, grazie a Dio, raccogliete i migliori che li porto ai maiali”, disse Daniele. A fine giornata, tutti i giorni, ne portava via due sacchi colmi.
La Pasqua era passata e stava terminando il mese di Maggio. Il pomeriggio del trenta – bella giornata – prima di scendere in paese, Giovanni decise di andare a vedere il grano seminato. L’orzo e l’avena gli vedeva tutti i giorni poiché vicino all’ovile.
Aveva sellato Serena, la cavalla grande, e andò prima a S’Enturzone e dopo a Collari, e rimase contento, che tutti i cereali stessero crescendo gagliardi.
L’acqua non gli era mancata, poiché anche in Aprile e in Maggio cadde abbondante e regolare.
La notte – ed era da molto che non gli accadeva- dormì bene e gli costò ad alzarsi, perché era tranquillo che l‘annata era andata bene e gli metteva il cuore in pace.